Fine novembre del 1974. Werner Herzog è a Monaco quando riceve una brutta notizia: Lotte Eisner sta morendo nella sua casa di Parigi: “Guai! Lei non deve. Lei non morirà”… E Werner si mette in cammino, zaino in spalla e stivali più o meno comodi. Lo scopo è camminare fino a Parigi, 800 km per esorcizzare la morte, per omaggiare un’amica. D’altronde è a lei che ha dedicato il suo ultimo film, L’enigma di Kaspar Hauser.
È sicuro, Werner: saluterà Lotte ancora in vita. Perché? Perché la Eisner è la memoria del cinema tedesco che, dopo anni d’oblio, grazie a lui e ad altri interpreti di talento (Fassbinder, Von Trotta, Schlondorff), sta rinascendo.
Ma chi era Lotte Eisner?
Chi ha sostenuto vecchie annualità di storia del cinema (il vecchio esame, quello che consisteva nel vedere molti film muti) ricorda bene Lotte e quel libro dal nome evocativo, Lo schermo demoniaco, messo oggi colpevolmente fuori catalogo.
Per fortuna riesco a procurarmene una prima copia, datata 1955. Prefazione e traduzione sono di Mario Verdone, critico di cinema e storico del futurismo ma a molti noto soprattutto per essere il padre di Carlo.
La Eisner ci racconta tutto il cinema espressionista, dal Gabinetto del dottor Caligari fino alla Lulù di Pabst, la Weltanschauung di un popolo sconfitto in guerra e sull’orlo della bancarotta, ma pieno di energie vitali contrastanti e creative. Hitler spazzerà via tutto questo, bollando tutto come arte degenerata, con l’obiettivo di distruggere ogni differenza sociale e culturale da imbalsamare sotto la follia del terzo reich e del mito ariano. Esemplare la storia di August Sander, uno dei padri della fotografia. I suoi ritratti di tedeschi al lavoro (contadini, commercianti, veterani di guerra, artisti) vennero vietati, le lastre distrutte, suo figlio arrestato; erano troppo realisti, troppo distanti dalla società “perfetta” che il regime propugnava.
Lotte raccontava dello spirito romantico tedesco, del rapporto sofferto con la Natura: il cinema fu uno degli apici di quella visione. Ma tutte le arti erano in fermento: c’era Brecht e il suo teatro epico e sociale, Grosz e la potente figurazione del maiale borghese, il dada tedesco politico e arrabbiato, il Bauhaus razionale ed utopico allo stesso tempo. Benjamin scriveva da recluso, spaventato da oscuri presagi. Era, la Germania, al centro dell’avanguardia. Lang, Pabst, Murnau, Lubitsch: quanti geni furono costretti alla fuga, quasi tutti verso l’America.
Lotte fuggirà a Parigi nel 1933.
Sopravvissuta a tutto (lager incluso) tornerà in Germania solo all’inizio degli anni sessanta, per alcune conferenze. Il giovane Herzog la conobbe proprio dopo una proiezione di Metropolis: quella donna minuta ma dura come la roccia divenne la sua mentore, definendo il suo primo film Segni di vita, un vero film tedesco.
Per lei Werner attraverserà il Reno e la Marna, mangerà e dormirà a stento in uno degli inverni più duri del secolo, si scontrerà con la Natura, muta e insensibile alle piccolezze degli uomini, come un personaggio dei suoi film, perso tra paesaggi industriali e orizzonti di un passato sepolto.
Arriverà, però, in tempo per distendere le gambe accanto al suo letto, convinto di poter essere in grado di volare….Lotte sta meglio. Vivrà per altri nove anni, lavorando fino all’ultimo giorno.
Il diario dell’incredibile impresa di Herzog è pubblicato da Guanda, con il titolo di Sentieri nel ghiaccio.