Si può vivere anche a Milano: viene da pensare alla canzone di Eugenio Finardi del ’77, camminando all’alba di una domenica mattina per quelle strade insolitamente vuote e silenziose. Direzione: piazza Duomo. Palazzi alti di mattoni rossi, qualche bar aperto, signori a passeggio col cane.
Dopo un po’ di coda, eccomi dentro alla mostra: una quantità di opere provenienti dalla collezione di Peter Brant, «uno dei più importanti e illustri collezionisti di arte contemporanea al mondo, intimo amico di Warhol, con il quale ha condiviso gli anni artisticamente e culturalmente più vivaci della New York degli anno ‘60 e ‘70».
Grazie all’acume (e ai soldi) di questo illuminato signore, davanti ai miei occhi oltre 160 lavori di Andy Warhol: un artista che, a dire il vero, ho sempre trovato un po’ (troppo) furbo, modaiolo, leggero.
E invece.
Lontano dall’idea di riassumere, anche solo per sommi capi, la variegata vicenda biografica e artistica di quest’uomo che ha attraversato (e a suo modo cambiato) il Novecento, vorrei annotare qui una sorpresa, e proporla ai lettori di Gagarin Orbite Culturali come un invito a non lasciarsi sfuggire questa preziosa occasione.
All’esposizione milanese saltano agli occhi molte opere celebri: i coloratissimi ritratti di Marilyn, Elvis, Mao e Liz Taylor, i barattoli di Campbell’s Soup e le Brillo Box, le moltiplicazioni della Gioconda e le serie dei Flowers, … Opere “divertenti”, termine da intendere sia nell’accezione comune che in senso etimologico (come molti ricorderanno, questa parola deriva dal latino divertĕre, «volgere altrove»): sono lavori il cui focus è il mondo, i prodotti della società dei consumi, ciò che sta fuori di noi.
È noto che Warhol rappresentava tutto questo senza giudizio, come puri fenomeni.
È altresì inevitabile che la fruizione che almeno parte del pubblico ha di questi lavori, per dirla con il Roland Barthes de La camera chiara, attenga allo studium, cioè all’aspetto razionale che si manifesta quando il fruitore si pone delle domande sulle informazioni che l’opera gli fornisce (usi e modi di un contesto culturale o di una società, avvenimenti storici, …): quando, insomma, un’opera afferma qualcosa sul mondo, e fa pensare.
Tra questi ce n’è uno, a Palazzo Reale, davanti al quale qualche lacrimuccia (almeno a me) è scappata: si tratta di Green Disaster (Green Disaster Twice), una pittura acrilica e inchiostro serigrafico su tela del 1963 in cui Warhol prende una brutta foto di cronaca nera e semplicemente (spietatamente?), assecondando fino in fondo il suo noto tentativo di «essere una macchina», la raddoppia. Come a dire (io, non lui): anche i disastri, anche la morte sono immagini da vendere, beni da consumare, niente altro.
Proseguendo, si arriva a una serie di piccole Polaroid (mai viste in Europa), in cui l’artista ritrae una quantità di personaggi dello showbiz: dal mecenate Peter Brant a Valentino, da Yves Saint-Laurent a Rudolf Nureyev, da Mick Jagger a Arnold Schwarzenegger, da Liza Minnelli a Sylvester Stallone. E tanti, tanti altri.
E se stesso.
Eccoci al punto. O al punctum, per dirla ancora con Barthes (e cioè a ciò che concerne l’aspetto emotivo, ove lo spettatore viene irrazionalmente colpito da un dettaglio, da un particolare).
Quegli autoritratti mi fanno sorgere una quantità di intriganti interrogativi sullo statuto dell’opera d’arte nel Novecento.
Ve li risparmio.
Concedetemene uno solo: Andy Warhol è la persona ritratta, chi può dunque essere legittimamente considerato l’autore dell’opera? L’assistente che ha materialmente scattato la fotografia? O, trattandosi di una Polaroid (che fa tutto da sé), autore (autrice) è la macchina stessa?
Al di là (o al di qua?) di ogni elucubrazione, quelle piccole immagini un po’ sbiadite, quelle misere, laiche, postmoderne icone pop emanano autentica angoscia. Infinita solitudine. Sconfinata nostalgia.
Non solo la serie dei Self Portraits (in drag), in cui Andy Warhol si agghinda da signora: troppo facile l’accostamento tra la sua dichiarata omosessualità e la fatica che essa comporta nella nostra “società civile”.
Anche dagli autoritratti “normali”, anzi soprattutto da quelli, sgorga puro dolore.
Andate a vedere la mostra, in questi pochi giorni mancanti. E portatevi i fazzoletti.
MICHELE PASCARELLA
Info: http://www.warholmilano.it/