Lontani da casa ci si aggrappa disperatamente ai segni. Così Toronto, una città che ama il cinema, mi consegna tra le mani l’International Diaspora Film Festival esattamente nei giorni in cui mi trovo alle prese con una decisione da prendere: tornare a casa, alla vecchia Europa o rimanere qui, in Canada. È impossibile per me dare un giudizio obiettivo su questo festival o semplicemente raccontarlo con un metodo giornalistico. Ogni pellicola, ogni persona presente in sala, ha una diaspora personale, dalla quale è facile rimanere coinvolti.
Il festival, nato nel 2001, porta lo spettatore a vivere, attraverso gli occhi del cinema, il mosaico interculturale di cui sono fatte le città del mondo. Tra i protagonisti di questo festival sulla migrazione, immigrazione e la diversità culturale ci sono registi canadesi appartenenti a minoranze etniche.
Il concetto di diaspora viene esplorato in diverse chiavi di lettura. Dalla enciclopedica definizione di un popolo costretto a immigrare in massa e ad insediarsi in un altro paese, alle diaspore intime dell’essere umano e del viaggio.
Così, la mia esplorazione inizia con Marginal Road, della regista iraniana, ma ora cittadina canadese, Yassaman Ameri. A un anno dalla rivoluzione islamica e un mese prima dello scoppio del conflitto Iran-Iraq del 1980, Yassaman lascia il suo paese insieme al marito e a sua figlia per arrivare in Portogallo. Paese, che accoglieva gli iraniani senza obbligo di visto. Il racconto fatto dalla regista è delicato e poetico. Una valigia vuota, con numerosi oggetti preziosi e non che rappresentano una vita, una famiglia. Non tutto riuscirà a trovare posto, cosa sacrificare? Le foto di famiglia? Un paio di scarpe? Una valigia in cui dovrà entrare tutto l’indispensabile. La regista utilizza la forma del diario per raccontare le varie fasi di un esilio. Sembra, grazie alla slow motion, all’utilizzo di vecchie foto, al collage e alla intimità della colonna sonora, di sfogliare sullo schermo le pagine di un diario. La regista in sala smuove dentro di me la prima commozione, quando spiega di aver scritto il film in inglese e che se lo avesse fatto nella sua lingua madre, sarebbe stato un altro film, perché in Farsi, lei è differente. E la cosa più importante che ha perso, ancora una volta, è il linguaggio. Yassaman racconta di come, superati i vari ostacoli, sia semplice dare la definizione di casa in base a un piccolo oggetto. Sua sorella le regalò tanti anni a dietro, un sale e pepe, due pesciolini che si incastrano. Ora casa è dove sono quei due pesciolini.
La seconda diaspora è quella di Parviz del regista iraniano Majid Barzegar. Il protagonista, è un omone di 50 anni che vive con il padre, fa piccoli lavoretti e non ha nessuna cura per il proprio aspetto. Quando il padre decide di risposarsi, Parviz viene costretto a traslocare in un altro quartiere della città. Questa è la personale diaspora di Parviz, allontanato dai suoi luoghi, dalle sue conoscenze, dalle sue abitudini. Si dedica ad una brutale vendetta verso il quartiere che lo dimentica facilmente e verso le sole persone che gli riservano gesti di amicizia o di affetto. É decisamente un film diverso dalla produzione iraniana che arriva in occidente. Mi vengono alla mente film carichi di bellezza e di poesia. Parviz è drammaticamente grigio. Non c’è bellezza, ci sono case spoglie, fredda quotidianità e il respiro affannato del protagonista sovrappeso che non abbandona mai lo spettatore, anzi lo trascina nella tristezza soffocante di un uomo senza amore. Questo film segnala un cambiamento nella cinematografia del Medio Oriente, che sempre più si avvicina ai disagi della contemporaneità umana e al drammatico individualismo occidentale.
Terza fermata per il mio viaggio nella Diaspora è stato They were promised the sea, documentario sulla “volontaria” diaspora degli ebrei marocchini, girato tra le terre berbere e Israele dalla regista Kathy Wazana. Partendo dalla storia della propria famiglia, la regista narra dell’identità di un popolo e dei conflitti culturali che una terra come quella di Israele comporta. L’impossibilità di vivere pienamente le proprie origini e l’incapacità di trovare un dialogo tra le varie culture. Un viaggio a ritroso nella memoria di una famiglia che mantiene vive le proprie origini, attraverso la poesia e la musica. La realtà di un conflitto che è vivo, in una terra perennemente in lotta e nell’anima di una donna che porta dentro un pot arabo e un pot giudaico che si scontrano regolarmente. Carico di emotività è stato il dibattito a seguito del documentario sui rifugiati arabo-ebrei sulle ragioni che portano gli ebrei arabi a occupare i territori di confine in Israele: si tratta ovviamente di ragioni economiche, dato che queste terre sono maggiormente pericolose e a rischio. Tante storie diverse, tanti paesi lasciati, tante nostalgie. Ma la voce della ragazza siriana che prende parola e dichiara di essere un’attivista pro-Palestina mi porta la seconda commozione. La sua dichiarazione è forte e semplice, non c’è nessuna ragione culturale, è solo politica: un arabo ebreo può ritornare nel proprio paese di origine, mentre un rifugiato palestinese non può tornare nel proprio paese e tanto meno nella propria casa. Diaspora è un termine che molto facilmente viene associato alla diaspora ebraica, ma nella voce carica, sicura delle proprie ragioni, questa ragazza parla della nuova diaspora Palestinese, di quella terra promessa che ha cambiato i soggetti. Ora terra promessa è Palestina. A fine dibattito, vedo questa giovane della primavera araba parlare con una delle testimoni del mondo arabo ebreo, si sorridono, discutono e si salutano con un “there is not right”.
Altra forte emozione con il film documentario Ciclo della regista Andrea Martinez, che narra l’avventura intrapresa dal padre e dallo zio nel 1956 quando questi due giovani ciclisti partirono dal Messico per arrivare a Toronto in 82 giorni di bicicletta. La regista accompagna il padre e lo zio nel ripercorrere lo stesso viaggio a distanza di anni, in macchina, trovando il pretesto di raccontare la propria vita, il rapporto con il padre e la malattia della madre. Il risultato finale è una platea commossa, bellissimi protagonisti che trascinano lo spettatore con una semplicità che solo l’autenticità delle emozioni e dell’amore possono causare. É un grande omaggio alla vita. È un film che spinge all’ottimismo e al non fermarsi mai. Il tutto arricchito dalle musiche di Yann Tiersen.
Un altro viaggio lo si affronta in Just like a woman di Rachid Bouchareb. Mona e Marylin si incontrano nel mezzo della loro fuga personale, ciò che le accomuna è il quartiere in cui vivono a Chicago, la passione per la danza del ventre e le difficoltà con i rispettivi mariti. Iniziano un viaggio in macchina che le porta ad attraversare il paese e ha capire dopo qualche avventura quale sia il loro destino.
Ultimo film in programmazione è l’opera prima Una Noche di Lucy Mulloy, ispirato ad una storia realmente accaduta e girato con attori non professionisti. A Cuba, Elio e Lila sono due adolescenti, legati da un bellissimo rapporto fratello-sorella. Elio è attratto da un ragazzo della sua età, Raul. Quest’ultimo sogna di lasciare la vita di povertà e di restrizione dell’Havana per avventurarsi nella vicina Miami. Mentre Raul cerca di convincere Elio ad abbandonare Cuba, si mette nei guai: un incidente con un cliente della madre prostituta lo costringe alla fuga. Elio organizza l’imbarcazione e sua sorella segue i due amici, dato che le è impossibile allontanarsi dal fratello. Il viaggio si rivela drammatico, devastante e fallimentare. La regista è riuscita, a girare un film così autentico e critico sulla situazione cubana all’interno di Cuba che ci si domanda come le sia stato possibile farlo. C’e tutta l’eccitazione, il trasporto, il coraggio e la paura dell’adolescenza. La camera da presa è sempre vicinissima ai bellissimi visi dei tre protagonisti, ci si sente totalmente coinvolti, sembra di essere su quell’imbarcazione arrangiata insieme a loro, nel mezzo del mare, con tutta la voglia di arrivare all’altra costa e con tutta la paura che questo viaggio porta con sé: “Il mare mi fa paura, ma ne sono attratta. È come un edificio alto che ti mette voglia di saltare”. Il film è stato premiato in vari festival internazionali: Best New Director, Best Actor, Best Cinematography, al Tribeca FF 2012 , secondo come Best Feature Film a Berlin FF 2012; Best Screenplay all’ Athens FF 2012 , e ancora Best Director, Best Foreign Film, al Lauderdale FF 2012; Golden Anchor Award all’ Haifa FF 2012 e Telia Film Award a Stockholm FF 2012.
La serata finale del festival è dedicata, con Entranced Earth (1967) e Antonio das Mortes (1969), alla retrospettiva su Glauber Rocha, importante regista brasiliano ed esponente del Cinema Novo, movimento nato negli anni ’60 in opposizione al cinema di stampo hollywoodiano che veniva girato in Brasile. Glauber Rocha è stato influenzato dal Neorealismo Italiano e dalla Nouvelle Vague francese, e ha portato sugli schermi internazionali film carichi di critica sociale e politica. Nel 1965 Glauber Rocha teorizza il concetto di “estetica della violenza”, definendolo la spina dorsale del movimento Cinema Novo. Nel suo saggio Estetica della fame – che riflette la mentalità dell’epoca – proclama: «Per il Cinema Novo, il comportamento che la fame porta è la violenza, questa violenza non è primitivismo… più che primitivismo e di rivoluzione si tratta di un’estetica della violenza. Questo è il punto di partenza per il colonizzatore di comprendere l’esistenza del colonizzato. Finché non raggiungerà questo punto di vista, il colonizzato rimarrà uno schiavo. Ci doveva essere un primo poliziotto morto per far vedere ai francesi gli algerini».
STEFANIA SICLARI
1-5 Novembre 2013, International Diaspora Film Festival 2013, Toronto, Ontario, Canada – info