Visto che l’avevo già vista, ho deciso di tornarci. Per ascoltarla. Perché New York è una enorme play-town. Suonano tutti, nei parchi e per le strade, Up & Down, fino al Rose Theater, uno dei tanti spazi scenici del Lincoln Center, che anche quest’anno ha organizzato il festival Mostly Mozart. Tanti concerti e un’opera, Le Nozze di Figaro, in scena il 15 agosto scorso.
E in scena, già dall’ouverture ci sono tutti, ma proprio tutti: i cantanti, l’orchestra, sì, anche il direttore. Tutti lì a suonare, recitare. E giocare. To play, appunto, tra vestiti per aria, sali e scendi dal piccolissimo palco, piacionerie e strizzate d’occhio a chi, sul palco, non c’è. Cioè il pubblico. Che inizia a ridere e non finisce più, fino alla fine (complice una furbissima traduzione sul maxischermo). Sembra il David Letterman. Ma mica siamo in tv. O sì? Oddio. Non è che l’opera, per sopravvivere, deve chiudersi nella dimensione dello show in scatola? E se invece fossero le dimensioni-scatola del palco, a costringere il direttore d’orchestra e regista Iván Fischer a privilegiare il «gioco» piuttosto che tutto il resto? Delle due, forse, tutte e due.
Comunque hanno giocato, ma soprattutto cantato e recitato benissimo, Hanno Müller-Brachmann (Figaro), Matteo Peirone (Antonio) e Ann Murray (Marcellina), una spanna su tutti. Promossi con riserve Roman Trekel (Conte), Miah Persson (Contessa), Rachel Frenkel (Cherubino). Un grosso punto interrogativo vicino a tutti gli altri, a partire da Laura Tatulescu (Susanna). Corretta la Budapest Festival Orchestra.
Annalisa Reggi