Lou chitarrista, dunque.
Che dell’altro Lou, cioè del Lou delle canzoni – dell’unico autore che possa essere paragonato a Dylan per come ha messo le parole dentro alla musica, e possa essere persino anteposto a Dylan per quanto ha cercato (e trovato) dentro i suoni – ne stanno parlando tutti, e meglio di quanto possa fare io.
Il Lou con in mano la chitarra, affacciato sulle cantine del jazz di New York, a immaginare un suono capace di abbracciare Bo Diddley e Ornette Coleman.
Da lì si parte e lì si arriva.
Lou chitarrista degli elementi.
Chitarrista di terra fuoco acqua aria.
A sessant’anni e passa dice in un’intervista: “Credo di avere capito solo recentemente come suonare in maniera giusta un Sol maggiore”.
Pare un’idiozia, è una frase definitiva.
Parole che fanno sorridere i chitarristi e gli artisti da due soldi, e fanno pensare – e molto – chiunque abbia capito cosa è davvero una chitarra, e come ci si possa togliere da dentro qualcosa di sensato.
Lou appeso alla chitarra come un naufrago all’ultimo relitto della nave affondata.
Non tutti i gesti sono estetici, non tutti sono aggraziati. Ma tutti sono necessari.
E quando sblocchi il Sol maggiore, quando le note si sgranano una dopo l’altra con dietro tutto il peso della necessità, in un gesto preso in prestito alla natura pura e organizzato in un movimento artistico, allora sblocchi la chiave della forza.
Diceva qualcosa di simile anche Dylan, e intanto dava anche un colore a ogni accordo.
Dello stesso pianeta, Bob e Lou.
Una necessità, la loro, che parte e torna periodicamente al lato misterioso del Blues, e persino al rock and roll. E allo stesso istante va alla musica concreta, o al timbro puro, al messaggio primitivo di uno strumento in mano a un uomo.
E la lezione di Ornette Coleman, rivoluzionario della loro epoca e pure della nostra, appresa (o forse solo naturalmente “sentita”) e applicata alla musica orale.
Del resto Charlie Sexton prima di uscire per la prima volta dalla band di Dylan aveva dichiarato: “Bob non canta come vuole la gente, oggi canta ispirandosi più al suono e al timbro di Ornette Coleman che non ai folksinger”.
Una volta ho stretto la mano a Lou Reed.
A Milano. C’erano lui, Ribot e Zorn.
Ci aveva invitati Ribot, e ci aveva fatti restare a fine concerto, quando il personale aveva già sgombrato la sala dagli altri spettatori.
Il concerto, improvvisazione libera, era stato bruttino.
Specie per via di Zorn, più piacione di quanto lo avremmo tutti voluto.
Ogni tanto Lou e Ribot si erano però trovati a meraviglia. Nel rovescio di un accordo, in un clangore di corde, nel turbine di armonici di un feedback bene innescato.
Chitarristi, due chitarristi.
Con Robert Quine, terzo polo, e in qualche modo maestro/allievo di entrambi, ad assistere dall’alto.
Gente che ha capito il suono prima delle note.
Chè una nota senza suono è una nota inutile.
Anyway: mentre chiacchiero sul palco con Ribot, arriva Lou e si mette a fare sù i propri cavi, da solo. E’ a un metro da me. E’ uno dei più grandi di tutti i tempi, e pure uno dei più grandi stronzi di tutti i tempi.
Ho una frazione di secondo per decidere se dire una parola o no.
E quale parola scegliere nei miliardi di parole che avrei voluto dirgli.
Vado, e dico solo: “Congratulazioni, ottimo suono”.
Lui mi dà la mano, e la stringe pure (cosa rara, a quanto pare).
Dice: “Grazie, suoni la chitarra?”.
Io dico: “Sì”.
Lui sta zitto tre secondi, mi guarda un chilometro dentro gli occhi, e sussurra “Yeah”.
Quasi a dire: “Lo so, amico, è molto dura”.
Penso spesso a Lou, da ieri con un magone fisso a mezzo stomaco.
Poi penso spesso a quell’ “yeah”.
E al giorno in cui imparerò a suonare il Sol maggiore, se mai verrà.