Da 14 anni lo scopo del festival è quello di portare sullo schermo le diversità e le vitalità delle nazionalità indigene all’interno dell’arte contemporanea. Allo stesso tempo, Imagine-native si propone di promuovere, valorizzare e mettere in contatto gli artisti indigeni che spesso sono emarginati e relegati negli stereotipi.
Appuntamento interessante del festival, è stato l’indigiTALKS. L’incontro si basa sulla presentazione di un video, da parte di un film-maker, destinato a illustrare la cinematografia indigena e il suo cammino. Il primo video, girato da Wanda Nanibush, Outsiders, Lovable Loser and Nerds, è un collage di spezzoni tratti da film con protagonisti “perdenti-sognatori”, rinchiusi in esistenze di povertà ma liberi di sognare. La critica che arriva dalla regista è contro un processo di crescita che porta gli indigeni a diventare qualcosa che non sono, avvicinandoli ad un altro stereotipo che non gli appartiene (ad esempio quello americano), o a rivendicare le violenze subite con la conseguenza di sprecare il proprio fiato, dato che è impossibile tornare indietro nel tempo e combattere i colonizzatori. Ma la questione rimane delicata considerando che quello degli indiani d’America è un popolo che ha perso la propria lingua nel proprio Paese e quindi un popolo che deve combattere con la propria sconfitta tutti i giorni. Il secondo video, della regista Ariel Smith, Macabria’s midnight movie player, indaga con umorismo sul fertile rapporto tra cinematografia horror e registi indigeni, primo fra tutti il canadese Jeff Barnaby, nato in una riserva del Quebec.
L’Horror viene usato come chiave di lettura per esorcizzare la violenza subita. É un linguaggio semplice e diretto che i film-maker indigeni sono in grado di riconoscere e a cui sono in grado di dare valore, dato che la violenza impartita dai colonizzatori e tutt’ora presente e viva.
Dagli interventi del pubblico emerge la voglia di vedere sul grande schermo la vita attuale dei “nativi”: non solo esperienze di violenza, depressione, ma storie di gente che è felice, che ha successo , che ce l’ha fatta, film da poter mostrare ai bambini. Ancora una volta il bisogno della risata come rivalsa, come emancipazione.
Una serie di cortometraggi ha affrontato questo bisogno: The powwon rangers: comedy shorts program, 8 piccole opere a testimonianza dei diversi sensi dell’humor e dei diversi mondi estetici.
L’Europa è stata rappresentata da il corto finlandese Porot on poppii (horny reindeers), video musicale fatto di ammiccamenti erotici-umoristici con la regia di Oskari Sipola. Sempre europeo e sempre musicale il video svedese Guoldu Njurgu (sound of snowy wind) di Per Josef Idivuoma. Una sorta di conflitto tra le due personalità di un pastore sperduto nel paesaggio nevoso del nord. Bellissima fotografia e raffinata estetica tutta nordeuropea.
Il nord America era presente con il corto Will Smith gets a job di Marnie Parrell , creativo montaggio del viso di Will Smith nel delicato momento tratto dal film Io sono leggenda, in cui il protagonista è costretto a strangolare il proprio cane e unico amico. La regista canadese associa quell’espressione di dolore a una scena di sesso orale tratta da un film porno con la esilarante conclusione che «Will Smith gets a blowjob».
Altra testimonianza canadese Fusion di Erik Papatie delicata e graziosa corsa alla ricerca della propria anima e del proprio corpo di un giovane indigeno e della sua guida mistica, un cane parlante. Mentre gli Stati Uniti con Universal Vip di Gyasi Ross affrontano in maniera creativa, intelligente e divertente la storia di una giovane donna ossessionata dalla maternità che riceve l’inaspettata visita del Creatore in persona. Ne viene fuori un’opera ben fatta con ottimi interpreti tutti indigeni e con una riflessione sul diventar genitori.
Dall’ altra parte dell’emisfero, l’australiano The chuck in di Jon Bell, testimonia il pomeriggio senza meta di tre giovani aborigeni a spasso per la città, alle prese con l’acquisto di birra, di bulli e di ragazze francesi, il tutto condito di fantasia e senso dell’amicizia.
Ancora australiano è il brevissimo Secure your load di Adam Polly, dove un vecchio aborigeno cerca di difendere la propria terra dalla spazzatura.
Per ultima la Nuova Zelanda con Sounds Perfect di Allan George. La travolgente dedizione per la ricerca della perfezione nell’arte di un ingegnere del suono, che lavora come rumorista di film porno. Divertente, davvero.
Per la serata di chiusura, in attesa della proiezione dei vincitori, il festival propone la visione di un film vincitore nel 2008 al Toronto International Film Festival nella sezione Canadese.
Uvanga di Madeline Piujuq Ivalu e Marie Helene Cousineau. É la storia del quattordicenne Tomas che con sua madre, arriva per la prima volta in un villaggio dell’Artico per conoscere i nonni paterni. Tomas è restio alla nuova famiglia e alla nuova cultura che gli viene proposta, ma la vicinanza e la complicità con il fratellastro, appena ritrovato, lo porterà ad amare quel paesaggio vuoto, fatto di acqua che diventerà ghiaccio e giornate di luce perenne. L’anziano nonno lo spinge ad apprendere le antiche tradizioni inuit della caccia e a sentire il legame con il padre, cacciatore mai conosciuto e morto misteriosamente. Tutto il film è pieno di paesaggio, di luce, di un giorno che sembra non finire mai. Gli indigeni sono protagonisti come sostenitori delle tradizioni ma anche come vittime di una società che non li riconosce. Grandi orgogli legati alla terra e all’acqua e grandi debolezze pronte a rifugiarsi in alcol e droga. Il film fa sorridere e commuovere grazie alla profonda solidarietà materna e al tenero rapporto d’amore che lega Tomas a sua madre.
E a conclusione della quattordicesima edizione dell’Imagine-Native festival, la proiezione del film vincitore Satellite Boy della regista australiana Catriona McKensie.
É difficile descrivere un paesaggio come quello della “periferia” australiana. Enormi spazi, privi di ogni civilizzazione, vuoti e aridi deserti in cui sono stati relegati gli aborigeni. Sorta di schiavismo moderno, che senza una fisica, volgare violenza, continua a togliere ai nativi terra e dignità. Un bambino segue annoiato il nonno che prova, sotto un sole cocente, a impartire i segreti della terra a suo nipote. Pete ogni giorno aspetta notizie dalla madre e stringe al petto l’ultimo contatto avuto con lei, una cartolina che racconta del sogno di aprire un ristorante e vivere felici insieme. Ma la vita non è facile per il protagonista, il nonno continua a ricordargli che lei non tornerà e una ditta di costruzioni minaccia di cacciarli dalla loro piccola baracca. L’unico sfogo concesso dal deserto è la compagnia dell’amico Kalmain che propone avventure alla soglia dell’illegalità. Dopo un arresto e l’ennesima umiliazione impartita alle famiglie, i due decidono di andare in città e di convincere la ditta di costruzioni a lasciar stare quel pezzo di terra che è casa. Parte così, una grande avventura on the road , intervallata da piccoli e grandi ostacoli che trovano sempre la risoluzione attraverso Pete, che quando non sa cosa fare si mette in ascolto della grande terra, che in un dialogo totalmente mistico indica la risoluzione. È infatti grazie a questa connessione con la terra, con il cielo e le “preghiere” del nonno che i due ragazzini sopravvivono in mezzo all’arido deserto australiano. Ma una volta arrivati in città, confine segnalato dalla regista con l’ingresso del piede nudo dei due protagonisti sulla strada asfaltata, Pete perde ogni contatto con la terra e con il nonno e i due si ritrovano nuovamente nei guai. Grazie al nuovo arresto e alla televisione, la madre che vive in città, ritrova il suo bambino e inizia così un nuovo legame che porta Pete a fare una scelta: o la vita di città con l’amata madre o ritornare tra le braccia del nonno e continuare a “imparare la terra”.
Il film è ben girato, il paesaggio regala ottime fotografie. E l’alternanza tra avventura e sentimento, lo rendono piacevole e scorrevole. I due bambini sono bellissimi e portano sullo schermo la contraddizione dell’essere aborigeno, Pete con la sua ricerca delle tradizioni e il suo legame mistico-terreno e Kalmain con la spavalderia della ribellione e della perdita spirituale. Anche questa volta una storia di bambini come a testimoniare l’importanza del mondo indigeno di tramandare quello che ancora è tramandabile, indicando un sentiero di speranza che tramite storie come questa possano portare la realtà indigena sul grande schermo e, nel caso di Satellite boy al grande pubblico.
Alcuni dei cortometraggi segnalati sono disponibili su youtube e Uvanga è stato presentato al Festival del Cinema di Roma. Per quanto riguarda Satellite boy mi auguro che possa avere una grande distribuzione e che possa confermare che l’Australia non è solo terra di surfisti.
Buona visione.
STEFANIA SICLARI
16-20 ottobre 2013, quattordicesimo Imagi-native festival , Toronto, Ontario, Canada. info