Il documentario che Germano Maccioni ha girato attorno a Giovanni Lindo Ferretti si va a vedere con due curiosità di partenza: una sulla persona, dato che Ferretti non è mai stato uno che si sia concesso molto alle chiacchiere, e una sul personaggio. La cosa utile, però, è non andarci con pregiudizi o preclusioni alle vie di Damasco che la vita decide di concedere. Perché non può capitare anche a lui? Soprattutto a uno che ha chiesto espressamente di non essere trasformato in un idolo. Evidente richiesta di essere lasciato in pace e di non essere trasformato nel portavoce di una coscienza collettiva che, onestamente, è difficile da trovare in Italia.
Quando il documentario, molto bello e poco incline ad essere autoreferenziale, finisce si rimane con l’impressione che le due curiosità trovino un’unica risposta, perché persona e personaggio Ferretti si mischiano in una figura davvero fedele alla linea. Solo che la linea non è quella che ci si può aspettare guardando il suo passato artistico. O, per lo meno, guardandolo con uno sguardo che non penetra nello stato delle cose e nel rapporto fra essere umano e creazione artistica.
La figura di Ferretti è una figura sfuggente perché nei fatti sta scomparendo proprio la dimensione in cui la si può inserire: la montagna, a cui è ritornato in un percorso circolare fatto di ribellione, morte, malattia e rinascita, si sta svuotando e con lei proprio quelle figure di confine fra il cielo e la terra che la abitano. Il documentario, in modo coerente, va a cercare queste figure: le inquadra da lontano, le osserva aggirarsi ancora per le viuzze innevate, se le fa raccontare e le riporta alla memoria di chi, magari, non le ha mai vissute di persona ma ne ha sentore nei racconti partigiani dei nonni o nelle immagini viste di sfuggita da un finestrino durante le infinite gite fuori città durante l’infanzia. E forse, allora, il vero fulcro del film non è lo spettacolo equestre che l’ex CCCP sta mettendo in piedi per potersi permettere di morire con un cavallo accanto. Il vero fulcro sta nelle strade vuote, nei cartelli affittasi, nella fuga dalla montagna verso la città, da una casa di proprietà ad una in affitto, dalla libertà alla schiavitù di una vita moderna che incastra l’uomo in vincoli. E dunque il ritorno alla montagna è ritorno alla libertà, è la scelta di tornare alle proprie origini per sentirsi finalmente libero, di poter tornare in viaggio, di poter decidere per sé senza che siano i fan a pensare al suo posto. Quando si esce dalla visione l’impressione è che si sia perduto qualcosa, che l’icona che si aveva di Ferretti si sia rotta. Una rottura, però, che il cantante reggiano aveva già provocato con la fine dei suoi mille progetti, con le apparizioni post-operatorie smagrito e cadaverico, anche con le sue parole così poco fedeli ad una linea sempre meno omogenea. Una frattura, però, che provoca una rinascita e un grido. Quello di un uomo che chiede di essere lasciato al proprio destino. Ma non solo. E questa è la miglior speranza per tutti, la più bella canzone di Giovanni Lindo Ferretti.
ALESSANDRO BORIANI
FEDELE ALLA LINEA
Regia di Germano Maccioni,
Produzione Articolture e apapaja, Bologna 2013
Faenza, Cinema sarti, via scaletta 10, ore 21, info: cinemaincentro.it