Robe da matti.
Sentite questa: La conquista dell’inutile (Eroberung des Nutzlosen) è il titolo del diario tenuto da Werner Herzog durante i due anni e mezzo di lavorazione del suo film Fitzcarraldo nella giungla amazzonica, tra il giugno 1979 e il novembre 1981, e pubblicato in italiano nel 2007, oltre un quarto di secolo dopo l’uscita del film. Protagonisti di quelle pagine sono, come nel film, la lussureggiante foresta pluviale e le sue popolazioni di indios che a centinaia lavorarono come comparse nella pellicola, oltre a Klaus Kinski, l’attore preferito di Herzog. Nel descrivere la quotidianità di un’impresa che non ha nulla di quotidiano, Herzog arriva a ripensarsi radicalmente come artista e come uomo, riflettendo sul ruolo dell’arte, sul concetto di civilizzazione, sul senso della violenza e sull’ineluttabile crudeltà della natura.
Il titolo La conquista dell’inutile si riferisce sia alla lavorazione del film (famosa per l’incredibile sequenza di disgrazie, incidenti ed imprevisti di cui è stata costellata), sia per la sua trama: in Amazzonia, a cavallo fra Ottocento e Novecento, Brian Sweeny Fitzgerald (che si fa chiamare “Fitzcarraldo” perché i nativi del luogo non sanno pronunciare il suo cognome) sogna di costruire un grande Teatro dell’Opera nel piccolo villaggio amazzonico in cui vive, per farvi esibire i più grandi nomi della lirica, su tutti il famoso Enrico Caruso. Questo motiva un’impresa epica e assurda, che culmina in un epocale trasporto di un gigantesco battello attraverso la fitta e impervia foresta.
Fitzcarraldo, e il diario che ne racconta la mitica lavorazione, tornano in mente, ripensando al Festival di narrazione di Arzo, per alcune precise affinità: tre questioni che vorrei ora brevemente condividere, come piccolo contributo di pensiero al grande lavoro della Commissione artistica del Festival, formata dagli instancabili Annamaria Lupi, Natalia Lepori e Claudio Fenaroli.
Prima affinità: il fertile spreco, la feconda inutilità, la produttiva esagerazione, in questi tempi dalle molte crisi non solo economiche. Costruire un teatro in una cava (spazio che ha accolto unicamente lo spettacolo di apertura del Festival, Apocalisse di Lucilla Giagnoni) o lavorare un anno intero per realizzare solamente quattro giorni di Festival fanno tornare in mente le “macchine celibi” di quel genio (svizzero!) che era Jean Tinguely, o quelle “inutili” di un altro maestro, Bruno Munari. Viene da pensare all’Ecclesiaste e al suo irragionevole affidarsi alla zoé: «Getta il tuo pane nell’acqua, perché in molti giorni lo ritroverai». Per questa smisurata fiducia, per questo coraggio visionario, per questo iperbolico sforzo non si può che ringraziare. E basta.
Seconda questione: il rapporto con lo spazio. In Fitzcarraldo una lussureggiante foresta pluviale, nel Festival un paese di montagna in mezzo a boschi, prati e cave sono al centro dell’impresa. Là il luogo è origine e condizione dello svolgersi del dramma, mentre qui l’ambiente fa solamente da sfondo, da scenografia delle storie raccontate, che potrebbero egualmente abitare altri spazi. Unico progetto site specific, in questa edizione e in questo senso, è stato Vi ricordate quando…? Storie del Monte San Giorgio, a cura di Valentina Bianda, Lea Lechler e Daniele Bianco, lavoro però originato da un interesse più per il paesaggio “antropologico” che per quello naturale. Anche in considerazione della rinnovata attenzione che diversi studiosi, ricercatori e filosofi del paesaggio stanno dedicando in questi anni al rapporto fra luoghi naturali e narrazioni, una prossima edizione del Festival potrebbe forse indagare queste relazioni. Sintetizzando con uno dei grandi narratori italiani, Marco Paolini: «non raccontare storie, raccontare geografie».
Terzo e ultimo punto: gli spettacoli di questa edizione. Ogni Festival di teatro è certo costituito sia dal pensiero che sta prima e dopo, che tutto motiva e collega, sia dai singoli eventi performativi che ne compongono il programma: ecco dunque alcune brevi note sparse.
Delusione (solo personale, a dir la verità: il pubblico è stato entusiasta) per lo spettacolo di apertura, il già citato Apocalisse di Lucilla Giagnoni, lavoro a giudizio di chi scrive (il relativismo è d’obbligo, specialmente in considerazione delle tante opposte opinioni raccolte nei giorni successivi) un po’ troppo furbo ed egocentrico. Furbo per quel modo che accomuna molti teatranti e intellettuali piemontesi di “area Vacis” di trovare facili premesse condivise col pubblico mescolando cultura alta e vissuti comuni (Edipo Re e «la mia mamma cieca», le traduzioni dall’ebraico e «i miei nonni contadini che hanno sudato per far studiare mio padre, che ha sudato per far studiare me…»), o di guidare incessantemente il sentire degli spettatori attraverso echi, bisbigli, riverberi, musiche, e video-proiezioni ad effetto invece di affidarsi alle storie, alle cose, ai fenomeni (Merleau-Ponty docet). È sembrata, questa, una scelta davvero troppo facile, per una fra le grandi attrici del teatro non solo di narrazione italiano, che con ben altra asciuttezza potrebbe (e saprebbe) raccontare di spiritualità, di anima, parola che nell’origine greca è soffio, alito. Egocentrico, perché Giagnoni usa tutti gli elementi di cui sopra un po’ come faretti utili a illuminare le sue molte doti: senza per forza rifarsi all’attore santo grotowskiano, sarebbe forse auspicabile (necessario?) mettersi un po’ di più al servizio della storia che si racconta, come quei bravi mimi che quando tirano una fune immaginaria dopo un po’ fanno vedere solamente la fune, quasi scomparendo: «Ci sono atti di umiltà che ingrandiscono un uomo» ha scritto Erri De Luca. «E anche una donna», si potrebbe aggiungere qui.
Apprezzato il ritorno al Festival di Nicole & Martin, coppia (e famiglia, e tribù) di acrobati (e clown, e musicisti, e contastorie, e…) che ha portato i propri carrozzoni nel prato dei Ballerini di Arzo, per «mettere in vita» quattro diverse fiabe dei fratelli Grimm. Emozionante, oltre l’indubbia qualità dei lavoro e la maestria degli interpreti, è il progetto artistico-filosofico di una compagnia (e famiglia, e tribù) che ha da tempo scelto di non risiedere in una casa tradizionale, viaggiando per il mondo in carovana, lasciando ovunque bambini e adulti a bocca aperta.
Platea incantata anche di fronte alla semplice, cristallina presenza di Bruno Tognolini, “poeta per”, i cui affollati incontri hanno fatto pensare al Sándor Márai de Le braci: «Nel cortile del castello c’era un fico pluricentenario, simile a un saggio orientale che ormai sappia raccontare solo storie estremamente semplici».
Infine, Aspettando il vento, di e con Luigi D’Elia: spettacolo forse un po’ acerbo, con tempi e misura ancora da calibrare, che ha fatto ricordare come il teatro sia un organismo vivo, che si sviluppa e modifica col tempo e nell’incontro con i luoghi e le persone. La grande foresta, spettacolo di D’Elia visto al Festival 2012, memorabile per la coraggiosa asciuttezza e per i densi silenzi (doti così rare nel teatro ragazzi, soprattutto italiano) fanno star certi che il narratore (e guida naturalistica, e pittore, e…) brindisino saprà far crescere e vivere Aspettando il vento come esso merita.
Basta aspettare, appunto. E lavorare. E avere fiducia.
Come ci insegna questo Festival, meravigliosamente inutile.
Robe da matti, per fortuna.
MICHELE PASCARELLA
29 agosto-1 settembre 2013, XIV edizione del Festival di narrazione, Arzo (Ticino, Svizzera), info