Caro Stefano, cara Francesca,
ho scelto di scrivervi una lettera aperta. Questo piccolo artificio retorico credo ci ponga immediatamente al centro di una delle due questioni che il vostro lavoro solleva: lo spiare, l’intrufolarsi, l’origliare. Leggere una lettera (per quanto aperta) indirizzata ad altri può dare un minuto brivido da intruso, da invasore non visto (e per questo non sanzionabile), da voyeur dei pensieri, delle azioni (ed eventualmente dei dolori) altrui: una specifica condizione dello sguardo che InCertiCorpi certo indaga.
Occorre una spiegazione, per chi non avesse ancora visto il lavoro: in scena c’è una donna, in furibonda (e inevitabilmente perdente) lotta contro il tempo, contro il disfacimento del corpo. Una donchisciottesca figura che usa come spada e scudo make up e parrucche, che fa di una sedia da estetista il suo Ronzinante e di un impermeabilino trasparente la sua sghemba armatura.
Noi in platea stiamo a guardare il suo sfacelo, la sua annunciata sconfitta, il suo desolato tracollo. E questo dà un brivido, un po’ perverso e decisamente catartico, che ci interroga su una questione qui centrale: la commozione. Commozione è un termine antico, che ha nell’etimo il “muoversi assieme”. Verrebbe da alzarsi e abbracciare questa addolorata, dolorante e dolorosa figura, verrebbe da cercar di curare le sue ferite. E invece. Invece Francesca Figini, in InCertiCorpi, è un po’ come Renée Falconetti in La passione di Giovanna d’Arco, capolavoro del muto diretto da Carl Theodor Dreyer nel ’28 Noi, un po’ come Antonin Artaud in quello stesso film, siamo gli inquisitori che silenziosi respingono, che senza parole giudicano, che muti condannano. E la vittima sacrificale è bruciata da un grande fuoco, che non si può dire.
In questo senso pare davvero azzeccata la scelta di ridurre il testo a poche frasi essenziali, dette sporgendosi verso un microfono appeso a un patibolo da impiccato: una trovata (tra l’alea e l’istinto) che riassume scenicamente l’impossibilità (o almeno la difficoltà) di dire (o almeno di significare). Nella nostra frammentata contemporaneità, e dunque nello sfuggente precipitato che, di essa, è il teatro.
Muti, guardiamo tutto questo. O meglio: ci interroghiamo sul nostro modo di guardare (spiare?) il dolore degli altri. Merleau-Ponty docet: «ci guardiamo guardare».
Seconda questione-chiave dello spettacolo. Presentare e/o rappresentare.
Cento anni fa tondi tondi sono accadute due cosa che tornano, come in un anniversario, nel vostro lavoro.
La prima ha a che fare con la presentazione. Nel 1913 Marcel Duchamp realizza la sua celeberrima Ruota di bicicletta, e con essa cambia per sempre la storia dell’arte. Non più rappresentazione, ma presentazione. Una ruota di bicicletta e uno sgabello. Non disegnati, dipinti, scolpiti, raccontati. Una ruota e uno sgabello veri. E basta. Tra i mille figli di Duchamp c’è Jannis Kounellis, che invece di dipingere cavalli, nel ’69 decide di metterne dodici, in carne, odori e nitriti, in una galleria. C’è Fontana che taglia la tela, c’è Burri che la brucia. E un’infinità di altri. Un’infinità di mondo “così com’è” (ready-made, appunto) che diventa arte. O meglio: è l’intenzione di compiere il gesto di mettere in scena il mondo “così com’è”, che diventa arte. Con buona pace della téchne greca, dei vari Sistemi delle Belle Arti settecenteschi, e delle nature morte dipinte da mio zio, «che aveva proprio una gran mano, poveretto», direbbe la sua vedova.
La seconda attiene la rappresentazione. Nel 1913 va in scena per la prima volta (ed è inizialmente un enorme fiasco, come si sa) Le Sacre du printemps di Igor’ Fëdorovič Stravinskij, nel cui soggetto, è noto, un’adolescente viene scelta per ballare fino alla morte (e ci risiamo con la protagonista vittima sacrificale, ad hoc per altrui proiezioni e catarsi).
Fra questi due poli, presentazione e rappresentazione, si è mossa tutta l’arte (anche performativa) degli ultimi cento anni. Su questo, Hans-Thies Lehmann nel 1999 ha scritto un libro fondamentale (non ancora tradotto in italiano): Postdramatisches Theater. Lehmann ha evidenziato i tratti distintivi di quello che lui ha chiamato, appunto «teatro postdrammatico»: frammentazione, disordine, labirinto, decostruzione, montaggio discontinuo, collage. E ha sottolineato un mutamento fondamentale: il passaggio dall’impersonare al comunicare. Qualche anno dopo, Jean-Pierre Sarrazac ha precisato: «Si è prodotto un cambiamento di paradigma: il passaggio dal dramma-nella-vita al dramma-della-vita. Non c’è più una grande azione organica con un inizio, un centro e una fine, che hanno luogo durante una ‘giornata fatale’ e si svolgono nel senso della vita e della morte, bensì un’azione frantumata che copre tutta una vita». Nelle descrizioni di Lehmann e Sarrazac rientra pienamente, a mio avviso, tutto ciò che InCerti Corpi è (e fa).
Credo che i momenti più necessari del lavoro siano quelli in cui la figura non rappresenta (intensifica) il dolore, ma semplicemente (semplicemente?) presenta (fa) delle azioni concrete: correre, saltare la corda, appendersi mollette e altri aggeggi al volto. Quando queste azioni arrivano a influenzare/modificare concretamente il suo dire, le parole diventano cose fra le altre cose. Si trasformano in oggetti finalmente bassi, in paccottiglia di ogni giorno, in ready-made acustici, e si mescolano (oggettivamente, è proprio il caso di dire) a pettini, rossetti e vestiti dozzinali, perdendo quell’enfasi di glorificazione della disperazione, di santificazione degli ultimi che è forse l’unico vero rischio di uno spettacolo (per il resto davvero coraggioso) come questo. Qualche volta, verrebbe da pensare, non c’è proprio bisogno di inventare un mondo: il mondo c’è, e certe volte basta solo guardarlo. E dirlo.
Avrei certo alcune idee su qualche aggiustamento possibile: asciugature, abbassamenti, concretizzazioni, catalogazioni. Ma queste le tengo per una conversazione privata, fra noi, se lo vorrete.
MICHELE PASCARELLA
Teatro dei Venti, InCertiCorpi
regia di Stefano Tè, con Francesca Figini
visto al Festival Collinarea di Lari (PI), il 21 luglio 2013