Proseguono i nostri sguardi sul Festival di Santarcangelo. E proseguono gli interrogativi che essi pongono, nel bene e nel male.
Cominciamo dal male. Che forse è più gustoso per chi legge.
Il celebratissimo coreografo e danzatore (e direttore di Biennale, e Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres, e… e… e…) Virgilio Sieni è stato presente nei primi giorni del Festival con due coreografie, eseguite da alcuni ragazzini, realizzate nell’ambito della sua certo meritevole Accademia sull’arte del gesto. Nei giorni scorsi, già ci siamo profusi in lodi per uno dei due progetti, In ascolto: quindici minuti di assoluta purezza eseguiti da due bambine livornesi. Nei giorni successivi, abbiamo visto l’altra proposta, Racconto: danza di Giordano Signorile e musica dal vivo (violoncello) di Alberto Baldo. Ne siamo usciti pensando che questo spavaldo ragazzetto, certo bravo, mancava totalmente della commovente fragilità delle due livornesi, della loro sottile poesia. E che il violoncellista sembrava esageratamente in imbarazzo, davanti al pur (fin troppo) benevolo pubblico. Ma soprattutto: ne siamo usciti subito. Subito. Questo spettacolo dura cinque minuti. Cinque minuti. Secondo più (ma più probabilmente) secondo meno. Biglietto intero, mezz’ora di coda al caldo, prenotazioni e organizzazioni, per un lavoro di cinque minuti. In un tempo così breve, o ti appare la Madonna, e allora sei contento. O appari tu alla Madonna, e allora sei Carmelo Bene. Ma se con il genio pugliese l’arroganza è eventualmente accettabile, negli altri casi ne facciamo volentieri a meno. Grazie lo stesso.
Ancora.
Kate McIntosh propone All Ears e così lo presenta: «Il palco è come uno studio improvvisato per effettuare, con oggetti e materiali di tutti i giorni, strane registrazioni ed esperimenti acustici: vengono trascinate delle sedie, viene strappata della carta e i suoni sono raccolti e riprodotti. L’alternanza giocosa di suoni e silenzio fa emergere una riflessione sulla condizione dell’individuo, sulla sua solitudine e sul suo ruolo nella collettività». Ora: va bene che la riflessività è uno di quei temi che nel contemporaneo si usano in tutte le stagioni, ma che ogni (o quasi) proposta debba essere catalogata come «riflessione sulla condizione dell’individuo» dà l’idea che poco si abbia da dire. Kate McIntosh nulla aggiunge a una consolidata tradizione: si pensi agli intonarumori di Luigi Russolo un secolo fa, all’Happy news ears di John Cage cinquant’anni dopo, o alle analoghe epifanizzazioni dei ready made acustici dei Matmos, oggi. Insomma: niente di nuovo sotto al sole. Nessun colpo di genio. Per questo motivo, è mal digeribile la proposta dell’artista neozelandese che si dichiara lavorare «ai confini della performance, del teatro, dell’arte video e installativa»: ma chi sei, Leonardo? Arridatece Carmelo: arrogante sì, ma almeno era un genio.
Nel bene, invece (e a proposito di orecchie).
Francesca Proia, in Voce Lattea, accoglie lo spettatore seduta in penombra davanti a un tavolino coperto da un manto d’erba verde. Indossa un grande orecchio di plastica (invito a porsi in ascolto? denuncia del processo di artificializzazione che tutti coinvolge?), legge su leggeri fogli trasparenti un testo densissimo (raro equilibrio tra significante e significato), aspetta, innaffia con piccoli spruzzi il praticello davanti a sé, ascolta. E pone lo spettatore di fronte a un mistero. Senza ammiccamenti, risatine e scorciatoie à la McIntosh, Francesca Proia, con rigore e densità, lavora «perché il pubblico possa sperimentare concretamente l’idea di una realtà che si schiude attraverso il mistero del suono». Non dà risposte e facili istruzioni per l’uso, Voce Lattea, e per questo è un lavoro spigoloso e indigesto. Faticoso. E necessario. Il nuovo stadio del lavoro della coreografa e danzatrice, i cui «esiti performativi appaiano come precipitati, residui di ciò che la percezione ha catturato dell’invisibile» richiederà certo nostre ulteriori, grandi attenzioni. Nel frattempo, bisogna ringraziare l’artista per il coraggio di questa proposta, e il Festival per l’intelligenza di questa ospitalità.
Infine. Parlando di istruzioni per l’uso.
Art you lost? 1000 persone per un’opera d’arte è un grande progetto installativo creato da diversi artisti e gruppi teatrali romani (lacasadargilla, Muta Imago, L. Brinchi e R. Zanardo di Santasangre, Matteo Angius). Negli spazi della scuola elementare Pascucci è allestito il primo momento del lavoro, una fase di preparazione e raccolta che coinvolge cittadini e spettatori: «si tratta di un’installazione interattiva, in cui si entra da soli e rispondendo ad alcune proposte o richieste (a partire da quella, iniziale, di portare con sé un oggetto) si lasciano segni, tracce e memorie che compongono una filigrana del rapporto tra individui e città, passato, presente e futuro». L’esperienza è commovente, nel senso etimologico del «muovere assieme» e foriera di molte dense domande. A partire dall’indicazione preliminare: «Scegli un oggetto a te caro che sei pronto a lasciarci per sempre», che fa certo ripensare all’importanza che si dà agli oggetti, e all’arte, e alla capacità di “lasciar andare”. Viene in mente l’Ecclesiaste: «Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo tu lo ritroverai». Con questa fiducia ci si inoltra in un percorso curatissimo e commovente (anche nel senso comune: fa piangere di tenerezza dall’inizio alla fine), in cui si lasciano tracce della propria storia, del perdersi, delle cose care del mondo, in un precipitato, un condensato di esperienze, di nostalgie, di vita. Non vogliamo ora, svelare troppo nel dettaglio ciò che si è chiamati a fare nel percorso (Art you lost? è fruibile fino a domenica 21, ultimo giorno del Festival, e chi non l’ha ancora fatto è caldamente inviato a prenotarsi). Una cosa, però, la possiamo dire: dopo tanta concentrazione di memoria, il percorso finisce con una benefica, fenomenologica apertura. Con una terapeutica dispersione. Si è infatti invitati a scrivere su un foglietto rosso una parola «da conservare» e, una volta usciti, a lasciare questo foglietto in un luogo della città di Santarcangelo. Chi lo troverà, dovrà (si spera) metterlo in una buchetta delle lettere, appositamente predisposta. Si tratta, dunque, di affidare al caso, all’alea, il condensato di ciò che importa. «Getta il tuo pane sulle acque…», appunto. La conclusione del progetto si svolgerà durante Santarcangelo •14, «e riporterà in uno spazio pubblico e in forma di opera i materiali raccolti durante questo primo momento».
Voce Lattea e Art you lost? fanno venire in mente un lavoro di Yoko Ono del 1966, Mend Piece. Su un piano, l’artista ha appoggiato i cocci di un piatto rotto, e un barattolino di colla. Un invito allo spettatore a intervenire, ad aggiustare. E all’arte a ritrovare l’interazione col fruitore, e soprattutto la propria funzione medicamentosa. Mend Piece pone molte domande: dove sta l’opera d’arte (qualora, a dispetto di tanto pensiero debole, si accetti di usare ancora una definizione così impegnativa)? Sta nei cocci esposti? Sta nell’idea dell’artista? Sta nel piatto una volta che sarà ri-incollato? Sta nel concreto gesto di aggiustare? Sta nelle domande che l’opera stimola?
MICHELE PASCARELLA
info: http://santarcangelofestival.com/sa2013/