Mongolfiera: programma anni ’80 ogni lunedì su TeleCapodistria. Offriva una carrellata sui gol di tutti i campionati europei, compresi quelli oltrecortina. Mon-gol-fiera, appunto.
Sono venuto al mondo in una cesta di vimini, posso andarmene allo stesso modo. Mi abbandono al relativismo totale mentre Diego, il pilota, ci spiega che, in caso di pericolo, lui e solo lui può dare l’ordine di buttarsi fuori. In altri frangenti, a questo punto, avrei la salivazione azzerata, ma non adesso.
So poco delle mongolfiere ma mi sono sempre piaciute. Presi come siamo dai nostri effimeri tentativi di avere tutto sotto controllo – si tratti di un menù con 180 portate o di un itinerario turistico capace di toccare ogni angolo esotico dei Caraibi nell’ora e un quarto di ferie a nostra disposizione – i palloni aerostatici hanno molto da insegnarci. Ci ricordano che non possiamo sempre scegliere: una volta a bordo non sai né dove né quando arriverai (succede anche in treno, certo, ma è meno poetico).
Il pallone aerostatico infatti non può essere direzionato. Si può solo variare l’altimetria bruciando il gas contenuto in tre bombole grosse come siluri e sfruttare così le diverse correnti d’aria alle varie quote. A tenerci su è il ben noto Principio di Archimede ma mentre ci stacchiamo dolcemente da terra mi auguro che Archimede non abbia sbagliato i calcoli.
Caso di overbooking a parte (12 passeggeri paganti, solo 10 posti a bordo), il prepartenza scorre liscio: ci viene spiegata ogni norma di comportamento da tenere in volo mentre giganteschi ventoloni a motore imbottiscono di aria i 6mila metri cubi del pallone. Osservo gli addetti camminare dentro il soufflè che prende forma e faccio una botta di conti. Potrebbe contenere una ventina di appartamenti come il mio. E non è strano visto che occorrono circa 3 metri cubi per ogni chilogrammo da sollevare. Do allora un’occhiata alla forma fisica degli altri passeggeri e alle borse delle donne presenti che teoricamente era proibito portarsi appresso. Altri calcoli. Morirò per qualcuna che non ha saputo scegliere fra due tipi di crema idratante, assorbenti igienici, scialle, occhiali da sole, trucchi, calzettoni di lana chenonsisamai?
Poi il cielo di Ferrara spazza via ogni speculazione matematica. Sotto di noi qualche auto sbanda un poco mentre il conducente tenta di seguirci con lo sguardo. Allora Diego dà gas e tremende lingue di fuoco ci portano fuori della portata di omini divenuti formiche. Il Castello Estense pare un souvenir e l’intera città da qui è ancor più bella. C’è solo una leggera brezza e la completa assenza di un rumore che richiami la propulsione è strana da constatare: galleggiamo apparentemente immobili a 700 metri di quota solo per la differenza di temperatura tra l’aria nel pallone e quella fuori. Il panico dovrebbe materializzarsi sotto forma di passeggera con la falce e invece starsene lì a contemplare il panorama è la cosa più naturale del mondo.
Nessuna paura nemmeno quando, dopo un’oretta, Diego sceglie un gigantesco prato dentro l’aeroporto per atterrare. Ci posiamo morbidi come l’orsacchiotto sugli asciugamani lavati col Coccolino. Ma il nostro condottiero è un perfezionista e nota quel che dall’alto era impossibile vedere. L’appezzamento è ricoperto di insidiose stoppie appena trebbiate: una volta sgonfiata, la tela del pallone rischia di danneggiarsi. Allora fa scendere metà dell’equipaggio – la metà maschile manco a dirlo – e tenendo il pallone ad un metro e mezzo di quota fa sì che io e altri quattro lo possiamo trainare a mano verso un banale ma innocuo prato di infestanti distante un centinaio di metri. Il comandante è bravo nel mantenere costante l’esigua quota di volo, ma ugualmente un paio di volte il pallone si alza troppo e io resto a penzolare gambe all’aria attaccato a una delle maniglie esterne.
Finalmente la mongolfiera si posa. E la fatica decolla.
«Ora serve uno con molta forza e che corra veloce… Tu!». L’indice di Diego si abbatte sul sottoscritto come una sequoia nella foresta. Il mio curriculum non contempla nessuno dei requisiti. Farfuglio un’obiezione ma, costernato, osservo le mie mani stringere una fune recapitatami chissà da chi in quel breve attimo di smarrimento.
«Prendi la corda e corri più veloce che puoi laggiù fino in fondo al campo». Parto caracollando in mezzo ad erbacce alte una spanna senza pensare alla logica dell’operazione. Poi uno strattone secco alla fune quasi mi ribalta all’indietro. Allora mi volto e realizzo. La cima che impugno corre su su fino alla sommità della mongolfiera. Io dovrei galoppare tirando come una bestia per fare in modo che, una volta steso, il pallone sia più semplice da ripiegare. E per tirare io tiro, e mi dimeno, e scalcio. Ma è come menar pugni alla panza di Obelix.
Dopo qualche secondo Diego apre completamente lo sfiato sommitale della mongolfiera e allora il match acquista un senso. Stavolta knock out finisce quel pallone gonfiato multicolor. I venti appartamenti si afflosciano velocemente mentre ne ammaino la cima verso di me. Terminato il conteggio, invece di consegnarmi la cintura di campione l’arbitro ammonisce cordialmente i presenti. «Se tutti diamo una mano non sarà faticoso piegare il pallone e riporlo nella sua borsa». Ruoto la testa da un orizzonte all’altro: si tratta del più gigantesco letto da rifare che la storia dei lavori di casa ricordi. Dieci raccoglitori di cotone in jeans griffati si piegano verso terra ed iniziano pazientemente ad arrotolare stando ben attenti a non lasciare bolle d’aria. Venti minuti dopo stramazzo esausto ma soddisfatto sul pallone ormai rinchiuso nella sua sacca-salvaspazio.
Stiamo per far ritorno al campo base ma ci si accorge ben presto che l’overbooking non fa sconti nemmeno al grosso Land Rover su cui dovremmo accomodarci: fa caldo, sono sudato e l’ultima cosa che voglio è pigiarmi lì dentro con gli altri. La mia dedizione alla missione viene però ricompensata e così posso salire sul rimorchio scoperto, dentro la cesta. Lascio l’aeroporto di Ferrara con lo sguardo fiero un antico romano che conduce la biga al Circo Massimo. Una volta sulla pubblica via invece sarò costretto ad accucciarmi visto che il codice stradale non mi consentirebbe di essere lì.
Così mi stendo sul fondo della cesta e osservo scorrere un cielo incorniciato di vimini. Per una manciata di minuti ancora mi sentirò un vero pirata, un pirata dell’aria, un clandestino in un mondo sempre più terra terra.