L’occasione è ghiotta. Umberto Eco, scrittore, filosofo, accademico, semiologo, linguista e bibliofilo di fama internazionale, 37 lauree honoris causa, innumerevoli onorificenze e titoli accademici, imitazione da parte di Fiorello compresa, Eco dicevo trascorre a Forlì una giornata intera e decido di seguire uno degli incontri per estorcergli un’intervista volante.
Al termine del suo intervento in Università, durante il quale ha letteralmente torturato la collega che moderava, mi avvicino all’esimio letterato, chiedo il permesso di fargli qualche domanda e accendo il registratore.
Di fronte al luminare vengono meno tutte le certezze e le otto domande che ho preparato la notte prima si rimescolano tra di loro nel mio stomaco. Sbaglio in partenza perché lo chiamo Professore. Subito ripiombo nell’insicurezza disperata dello studente, che non si è preparato bene, in sede di esame. Anche io, perdonatemi, scrivo ma per diletto.
Lui è un provocatore nato, deliziosamente sadico, piccato e sintetico nel rispondere alle mie domande mentre si rimette il cappotto, firma autografi, posa per foto ricordo e si avvia con il suo bastone al pranzo con gli accademici. La signora in giallo, con i baffi.
Mi presento, gli accenno qualcosa sul fatto che Gagarin vuole fare informazione divertendo e gli chiedo qual è il ruolo dell’umorismo nella cultura.
«Il ruolo dell’umorismo nella cultura è centrale. Certo è difficile trovare dell’umorismo in Sofocle, ma non c’è altro in Rabelais. L’umorismo è una delle forme del discorso e del pensiero. Se si fa dell’umorismo alla Rabelais esso ha un ruolo centrale, se si fa dell’umorismo alla Bagaglino no».
A lui che frequenta assiduamente la rete, che ha aggiornato personalmente il proprio profilo su wikipedia, ma che ha anche pubblicato insieme allo sceneggiatore Jean-Claude Carrière il volume Non sperate di liberarvi dei libri in cui afferma che «il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici. Una volta che li hai inventati, non puoi fare di meglio», chiedo se in epoca di Facebook, Twitter e compagnia bella si può ancora fare cultura.
«Mah, voglio dire, cosa vuole dire fare cultura? Lei vuol dire fare arte o fare cultura? Se attraverso Facebook io comunico una correzione della teoria della relatività faccio cultura, così come potevo farlo su una tavoletta sumera, così come posso fare con un telegramma se scrivo e=mc²».
Effettivamente leggendo il volume in cui si passa dai papiri agli e-book, si capisce che i due autori non vogliono esaltare l’importanza del libro in sé, ma affermano l’esistenza del «concetto di permanenza e di durevolezza della memoria, veicolata dai libri, che rappresenta la cultura».
Ma data la facilità con cui attraverso Internet si possono trovare informazioni c’è ancora bisogno della figura del maestro?
Sì perché Internet… mentre la televisione fa bene ai poveri ma fa male ai ricchi, cioè insegna al contadino analfabeta almeno a parlare in italiano, ma se lei passa tutta la giornata davanti alla televisione diventa più stupido di prima (mentre trascrivo la registrazione mi rendo conto che, con molta classe o savoir faire come probabilmente direbbe lui, ha sottinteso che io ero stupido anche prima, nda), Internet fa bene ai ricchi e fa male ai poveri. Cioè a me fa bene, perché io sono in grado di discriminare tra le informazioni che mi dà, ad uno studente può fare malissimo ed è qui la funzione del maestro che è quello che ancora insegna a filtrare».
Stando a wikipedia, e lui dovrebbe aver filtrato per noi queste informazioni, pare che Eco non solo sia un bondologo, un esperto conoscitore del James Bond di Ian Fleming, ma anche un appassionato di Dylan Dog. Azzardo e gli chiedo come sceglie un libro.
«Non lo scelgo, io non leggo libri, io scrivo».
Non ci credo, riprovo e gli chiedo come legge un libro Umberto Eco? Le ho detto che non leggo. Io scrivo. Il gelo, alcuni secondi di gelo totale. Poi lui sadico, mentre firma un altro autografo, affonda la lama sino a toccare l’osso, «comunque da sinistra a destra e dall’alto in basso, normalmente, se non è ebraico».
Touché. Durante la conferenza sul tema Del tradurre e dell’interpretare cui ho assistito, Eco ha riconosciuto che il traduttore di un suo libro, traducendo in un certo modo un passaggio ha messo in luce che il passaggio stesso dava adito ad un’interpretazione diversa, addirittura migliore, di cui Eco non si era avveduto. «A volte i testi sono più intelligenti di chi li scrive». Parafrasandolo cerco di provocare il provocatore: allora c’è speranza che anche la cultura possa essere intelligente?
«Se lei pensa che noi del passato sappiamo tutto attraverso testi… può darsi che Dante fosse più stupido della Divina Commedia (oh, l’ha detto lui eh, nda) ma noi abbiamo a che fare con la Divina Commedia non con Dante, quindi la cultura è esattamente questo: avere a che fare con documenti che dobbiamo saper rendere intelligenti. Finito?».
Lo ringrazio e mi allontano con le pive nel sacco. Andandomene e dandogli le spalle temo possa darmi una legnata con il bastone. Bastonata semiologica s’intende.