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È piuttosto straniante vedere la lunga fila di signori e signore eleganti, di Ravenna e non solo, attendere il vaglio degli agenti preposti a controllare l’ingresso al Palazzo Mauro de André (luogo intitolato al fratello del cantautore Fabrizio, sia detto per i curiosi).
L’occasione? Una replica di Decadance, versatile mosaico di danze composto da Ohad Naharin nel 2000 per celebrare il ventennale di sua direzione dell’israeliana Batsheva Dance Company, nome che se ai più dirà poco per appassionati e addetti è un vero e proprio mito.
Il motivo di questi controlli? Una ridda di minacce, anche anonime, pervenute nelle settimane precedenti lo spettacolo allo scopo di contestare e boicottare la presenza in Romagna della nota Compagnia.
Per fortuna tutto si è svolto serenamente: nessun incidente.
Un piccolo inciso sul punto, prima di passare a qualche breve nota sullo spettacolo, riportando alcune informazioni recuperate nell’utilissimo programma di sala.
Nel 1998 a Gerusalemme si tennero le celebrazioni per i 50 anni della nascita dello Stato di Israele. Tra gli spettacoli in programma figurava Anaphase della Batsheva: un esercito di ballerini si spogliava della tenuta kaki, con un passaggio in cui i danzatori restavano in indumenti intimi. Il presidente Ezer Weizman in persona chiese a Ohad Naharin di censurare quella sequenza, facendo indossare «qualcosa di più decoroso». Il coreografo si rifiutò e la Compagnia si schierò compatta dalla sua parte. Il caso divenne una medaglia da appendere al petto dell’artista per la libertà d’espressione in Israele. Anche recentemente con il suo Last Work (2015), Naharin ha ribadito con la fermezza che lo contraddistingue le sue posizioni: «Forse sarà il mio ultimo lavoro. Io amo Israele, ma stiamo vivendo in un momento infestato da razzisti, da grande ignoranza, abuso di potere e fanatici. Una situazione che mette in pericolo non solo il mio lavoro di creatore ma le vite di tutti noi. L’arte può insegnare la virtù di una nuova soluzione e il vantaggio di rinunciare a vecchie (cattive) idee. La danza in particolare insegna che connotazioni nazionali, religiose, geografiche ed etniche non hanno importanza».
Hanno forse sbagliato bersaglio, i contestatori?
Fine dell’inciso.
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Decadance è pensato come una sorta di gala: collage di pezzi efficaci e potenti, composti nell’arco di un quarto di secolo ed eseguiti con precisa energia da una ventina di danzatori e danzatrici giovani, atletici e bellissimi.
Questa tipologia di spettacolo-contenitore può mancare di unitarietà tematica e forse formale, ma presenta certamente il vantaggio di essere generosa in termini di variazioni, cambi di atmosfera e di ritmo, a beneficio soprattutto del rapporto con il pubblico meno abituato alla danza contemporanea, che a Ravenna ha reagito con entusiasmo e calorosissimi applausi.
Il primo brano proposto è uno dei cavalli di battaglia della Compagnia (fondata nel 1964 dalla Baronessa Batsheva de Rothschild – da cui ha preso il nome – sotto la diretta supervisione artistica di Martha Graham): si è trattato di un «potente affresco corale in cui i danzatori siedono in semicircolo in giacca, pantaloni e cappello scuro, intonando canti della tradizione, alzandosi e battendosi braccia e mani sul corpo come in un rito dionisiaco. “Posseduti” da un demone della danza», come ha efficacemente sintetizzato Rossella Battisti.
A seguire, proteiformi frammenti dalle opere Kyr (1990), Anaphase (1993), Mabul (1992), Sadeh21 (2011), Virus (2001), Zachacha (1998) e Three (2005).
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Non è possibile in questa sede approfondire il racconto né tanto meno l’analisi dei singoli lavori e della biografia artistico-pedagogica del loro autore. Ma almeno una parola occorre spendere sulla relazione che Decadance è in grado di stabilire con la platea.
Il pensiero compositivo che inanella i passaggi di questo gala se da un lato asseconda l’ovvia necessità di variazione (di ritmi, atmosfere e temperature), dall’altro gioca con sapienza e gentilezza con le aspettative del pubblico.
Ohad Naharin propone in continuazione forme apparentemente semplici, disegni coreografici finanche elementari (cerchi, semicerchi, linee rette, linee oblique, …), che hanno l’effetto e il merito di non “spaventare” il pubblico meno avvezzo alle criptiche astruserie di certe proposizioni contemporanee.
È una accessibilità mai banale, costantemente messa in crisi da inaspettate variazioni, da magistrali sporcature, da improvvisi straniamenti che dinamizzano e sfaccettano la danza del vigoroso ensemble. La sequenza di soli, duetti e momenti d’insieme, incroci e slanci, stop e dinamismi improvvisi, sbilanciamenti ed elevazioni instaura senza posa un patto con lo spettatore, che immediatamente tradisce.
Tutte le opere hanno trame: non (solo) in senso narrativo, bensì formale, strutturale. Eventi che accadono e che giocano con ipotesi, sorprese e conferme, valutati nei termini del grado in cui sono attesi o inattesi. Il guardante, consapevolmente o meno, si crea aspettative: parte della tecnica dell’artista è giocare con esse, così come parte del piacere del pubblico consiste nel farsi coinvolgere in questo gioco. L’arte che solitamente si apprezza si pone in una strada intermedia fra l’atteso e l’inatteso, egualmente distante dalla prevedibilità (e dunque dalla noia) e dal caos (e dunque dall’inintelligibilità).
Ohad Naharin costruisce senza posa, e subito smonta, le forme che crea, mettendo in tutta evidenza lo scheletro della sua proposta coreografica, il suo esistere unicamente nel qui e ora: «La magia della danza sta nel suo continuo svanire», conclude.
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Decadance ha due soli nei, uno di contenuto e uno strutturale.
Il primo: un brano in cui i danzatori chiamano una quantità di donne e uomini del pubblico a realizzare una serie di piccole danze “libere” e figure che, ricordando in parte alcune processioni à la Pina Bausch e in parte Thriller di Michael Jackson, costituiscono una deriva pop(lista) decisamente evitabile, laddove la relazione con la platea è già stabilita su un piano un po’ più sottile, come si è cercato di accennare.
Il secondo: uno spettacolo impostato alla The Best Of inevitabilmente dà spazio ad alcuni passaggi dimostrativi (o “pezzi di bravura”, che dir si voglia): «Nella compagnia di Naharin prendono posto danzatori intesi come individui con talenti speciali», spiega Rossella Battisti. Se ciò è certamente vero, prevedere una struttura che enfatizzi tale dato forse a tratti può risultare un po’ ridondante.
Detto questo: evviva la maestria di questo storico ensemble. Evviva il Ravenna Festival che lo ha portato in Romagna. E, come detto da un’amica seduta in platea, evviva la pace.
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MICHELE PASCARELLA
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Visto il 6 luglio 2016 al Palazzo Mauro de André di Ravenna – info: ravennafestival.org, batsheva.co.il
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